Deve considerarsi nulla, e quindi non apposta, la clausola del disciplinare di gara secondo cui l’avvalimento dell’attestazione SOA era subordinato al fatto che la stessa impresa ausiliata sia a sua volta attestata. La nullità (parziale) della clausola, che non si estende all’intero provvedimento, impone all’impresa l’obbligo impugnare nei termini ordinari l’eventuale aggiudicazione od esclusione.
Resta fermo che l’avvalimento deve andare oltre il dato formale della spendita in gara di un’attestazione altrui, considerandosi ormai essenziale la messa a disposizione dell’intero complesso di elementi e requisiti riferibili all’organizzazione dell’ausiliaria.
E’ quanto deciso, dall’Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, interessata sulla legittimità di una clausola di gara che imponeva al concorrente ausiliato di allegare la propria attestazione SOA (sentenza del 16 ottobre 2020, n. 22).
Prima ancora di affrontare nel dettaglio se e a quali condizioni è possibile l’avvalimento della SOA di altra impresa, nella sentenza viene affrontato il controverso tema dell’avvalimento della certificazione di qualità ISO:90001.
In particolare, l’Adunanza Plenaria ricorda che il Codice dei contratti pubblici, d.lgs. 50/2016, ha superato un primo indirizzo giurisprudenziale (nato in vigenza del d.lgs. 163/2000) che – nato con riferimento all’ISO:90001 – negava l’ammissibilità dell’avvalimento di qualsiasi certificazione sul presupposto del loro carattere intrinsecamente e insostituibilmente soggettivo e quasi “personalistico”.
La motivazione di tale mutamento va ricercata, sempre secondo l’Adunanza Plenaria, nel fatto che la certificazione di qualità costituisce un requisito speciale di natura tecnico-organizzativa, e come tale, è suscettibile di avvalimento (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. V, 30 novembre 2015, n. 5396; id. 26 maggio 2015, n. 2627)
Confermano tale possibilità – su cui si era peraltro già espressa la Adunanza Plenaria con sentenza n. 23 del 4 novembre 2016 (sul previgente d.lgs. 163/2006) – alcune disposizioni dirette a favorire il principio della massima partecipazione alle procedure di gara ossia:
Per quanto riguarda la SOA, l’Adunanza Plenaria sottolinea che il Codice dei contratti (art. 84, comma 1) prevede che i soggetti esecutori a qualsiasi titolo di lavori pubblici di importo pari o superiore a 150.000 euro devono essere qualificati da società organismi di attestazione, appositamente autorizzate dall’ANAC.
Pertanto, al fine di evitare che l’avvalimento dell’attestazione SOA divenga in concreto un mezzo per eludere il sistema di qualificazione, la giurisprudenza ha ipotizzato il necessario superamento di una duplice condizione:
Pertanto, ai fini della qualificazione e dell’esecuzione dell’appalto, non è sufficiente che l’ausiliaria si impegni semplicemente a prestare l’attestato SOA, quale mero requisito astratto e valore cartolare, ma deve mettere a disposizione dell’ausiliata, l’intera organizzazione aziendale – comprensiva di tutti i fattori della produzione, tutte le risorse e il proprio apparato organizzativo – che le ha consentito di acquisire l’attestazione e la certificazione di qualità (cfr. Cons. St., sez. V, 16 maggio 2017, n. 2316; id. 12 maggio 2017, n. 2226).
Tali condizioni avvicinano l’istituto dell’avvalimento ai c.d. contratti d’impresa, già noti nelle negoziazioni private, in cui si fa ricorso ad istituti e meccanismi di collaborazione propri di quell’ordinamento, come il noleggio, l’affitto, il consorzio, il gruppo societario, il subappalto, la cessione di ramo d’azienda (cfr. Adunanza Plenaria n. 13 del 2020).
Sicché, l’avvalimento “non consente di creare un concorrente virtuale costituito solo da una segreteria di coordinamento delle attività altrui, né di partecipare alla competizione ad un operatore con vocazione statutaria ed aziendale completamente estranea rispetto alla tipologia di appalto da aggiudicare” (cfr. Cons. Stato, sez. V, del 20 novembre 2013, n. 1772; id., sez. III,. n. 3702 del 10 giugno 2020).
Solo su tale base è possibile evitare il cd. fenomeno del c.d. “avvalificio” (in cui operino imprese che si limitino ad utilizzare la capacità economica di altre imprese), indirizzare l’applicazione pratica dell’istituto (che può presentarsi sotto forma di avvalimento frazionato, plurimo, incrociato e ‘sovrabbondante’) e sanzionare le forme di avvalimento vietate (vedi quello cd. ‘a cascata’, da ultimo approfondito dalla stessa Adunanza Plenaria con sent. n. 13 del 2020 in riferimento al progettista indicato “non rientrante nella figura del concorrente né tanto meno in quella di operatore economico”).
Una volta adempiute le suddette condizioni, osserva l’Adunanza Plenaria, obbligare l’ausiliata – a pena di esclusione – a produrre la propria attestazione SOA si traduce in un vero e proprio divieto di applicare l’istituto dell’avvalimento (in contrasto con gli artt. 84 e 89 del Codice), perché impone un adempimento solo apparentemente formale che, in modo surrettizio ne comprime l’operatività senza alcuna idonea copertura normativa (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 23 agosto 2019, n. 5834).
Neppure si può ritenere che la clausola in questione sia legittima sulla base del Codice laddove prevede che «le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità» (art. 83, comma 8, primo periodo, del Codice).
Infatti, per il principio di tassatività delle cause di esclusione (art. 83, comma 8 del Codice), la discrezionalità, che consente di richiedere requisiti coerenti e proporzionati all’appalto, è ben diversa dalla facoltà, non ammessa dalla legge, di imporre adempimenti che in modo generalizzato ostacolino la partecipazione alla gara (cfr. Cons. St., sez. V, 26 maggio 2015, n. 2627).
Come evidenzia la sentenza in commento, secondo la più risalente giurisprudenza amministrativa (Adunanza Plenaria, sentenza n. 1 del 2003), l’impresa potenzialmente lesa da una clausola escludente aveva l’onere di proporre subito un ricorso giurisdizionale, sicché si doveva considerare tardiva la sua impugnazione unitamente all’esclusione, se proposta dopo la scadenza del termine di impugnazione del bando.
Tale giurisprudenza, ricorda l’Adunanza Plenaria, è stata superata dal d.l. n. 70 del 2011 che, modificando l’art. 46 del d.lgs. 163/2006, ha introdotto il principio della ‘tassatività delle cause di esclusione’ ribadito nell’art. 83, comma 8, del vigente Codice, in cui è stabilito che ‘sono comunque nulle’ le clausole escludenti in contrasto con tale principio.
Sul significato di tale nullità, l’Adunanza Plenaria conferma quanto già sancito con la sentenza n. 9 del 2014 ossia che “la sanzione della nullità… è riferita letteralmente alle singole clausole della legge di gara esorbitanti dai casi tipici; si dovrà fare applicazione, pertanto, dei princìpi in tema di nullità parziale e segnatamente dell’art. 1419, comma 2, c.c.” (la cd. condizione del vitiatur sed non vitiat).
La nullità, pur non estendendosi al provvedimento nel suo complesso, rende illegittimi e quindi annullabili secondo le regole ordinarie gli atti ulteriori posti in essere dall’amministrazione (esclusione o aggiudicazione) che si fondino sulla clausola escludente nulla.
Gli atti successivi del procedimento, conservando il loro carattere autoritativo, sono soggetti al termine di impugnazione previsto dall’art. 120 del codice del processo amministrativo, entro il quale il concorrente può chiedere l’annullamento dell’atto di esclusione (e degli atti successivi) emesso dalla Stazione appaltante, per aver fatto illegittima applicazione della suddetta clausola.
Ne consegue che non sussiste alcun onere a carico delle concorrenti di impugnare (entro l’ordinario termine di decadenza) la clausola escludente nulla e quindi “inefficace” ex lege. Il concorrente è tuttavia soggetto ad uno specifico onere di impugnare nei termini ordinari gli atti successivi che facciano applicazione (anche) della clausola nulla contenuta nell’atto precedente.
Per le ragioni che precedono, l’Adunanza Plenaria ha enunciato i seguenti princìpi di diritto:
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