La normativa urbanistica nazionale tuttora vigente (Legge 1150/1942) attribuisce ai Comuni il potere di approvare il Piano Regolatore Generale, uno strumento caratterizzato da forte rigidità e durata indeterminata. Successivamente con il DPR 8/1972 e il DPR 616/1977 vi è stato il trasferimento delle funzioni in materia urbanistica alle Regioni, che hanno iniziato a legiferare in materia.
Da circa 20 anni, per garantire maggiore flessibilità alla gestione del territorio, le Regioni si sono dotate di piani urbanistici composti da due atti:
Si assiste ora all’inizio di una terza fase regolatoria (vedi LR Emilia Romagna 24/2017), in cui vi è il ritorno ad un piano unico e dai contenuti semplici: obiettivi, regole per il patrimonio edilizio esistente nell’ottica della rigenerazione, quelle per il territorio rurale, dotazioni territoriali differenziate per la città costruita e per quella eventualmente da costruire.
In una realtà dominata dalla globalizzazione e dai continui mutamenti economici e sociali, vi è l’esigenza di dare vita a piani flessibili, in grado di accogliere con celerità le nuove richieste o, addirittura, a piani in grado di anticipare le opportunità. Servono strumenti dotati di una maggiore apertura ai privati e al mercato.
L’Ance ha aggiornato (8 novembre 2019) il dossier che fa il punto sulle diverse tipologie di strumenti urbanistici previsti dalle leggi regionali in materia di governo del territorio, analizzando in particolare la durata del piano, la previsione e la durata dei diritti edificatori e le modalità attuative.
Ne emerge un quadro piuttosto variegato in cui, a fronte di molte Regioni che si sono dotate di piani “sdoppiati” in parte programmatica e parte operativa e di una Regione ritornata al piano unico “semplificato”, ve ne sono alcune ancora dotate di PRG secondo il modello della Legge 1150/1042.